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La Tricia McMillan che era originaria di questo pianeta Terra, e che non era mai stata in sospensione artificiale nel costrutto della GGAS-2, ebbe un’idea.
«Parlerò con loro, mia cara» disse alla ragazza che era la sua ipotetica figlia mai nata, proveniente da quella che era periodicamente un’altra dimensione. «I grebulon mi ascoltano. Sono una specie di pin-up ai loro occhi.»
E sparì nel corridoio, pochi attimi prima che quello stesso corridoio svanisse, sminuzzato dai raggi come coriandoli al vento.
Arthur era troppo inebetito per essere terrorizzato. Provava piuttosto una strana, pungente invidia.
“Se non altro Tricia ha dato un senso alla sua morte. Ha trovato una risposta alla sua domanda, e non era un maledetto quarantadue. Tutto quello che posso fare io è starmene qui impotente.”
Provava un senso di scetticismo, che era giunto a conoscere bene durante la sua fase di viaggiatore della galassia. Aveva spesso sospettato in segreto di essere pazzo. Non esisteva nessuna Cuore d’Oro, nessun Zaphod Beeblebrox e certamente nessun Pensiero Profondo. Idem per i magratheani costruttori di pianeti, una cosa di una ridicolaggine lampante, persino più assurda dei topi parlanti che si diceva governassero il pianeta.
«Con permesso, dotto’» gli fece un topo, passando accanto alla sua scarpa.
«Prego, amico» borbottò Arthur, alzando meccanicamente il piede.
Era tutta una follia. Da qualche parte a osservarlo c’era un gruppetto di studentelli universitari, alle prese con il doposbornia per i festeggiamenti seguiti alla partita di rugby della sera prima, che se ne sbatteva dei deliri del paziente Dent.
“Se loro se ne sbattono, perché a me dovrebbe importare?”
Dietro di lui, la porta del bagno si frantumò in mille schegge sopra la sua testa. Qualche attimo dopo, dell’acqua troppo sospetta cominciò a colargli da sotto il cavallo dei pantaloni.
Ford ridacchiò. «È proprio vero ciò che dicono. Scende sempre a valle.»
«Credi sia il caso di tentare la fuga?»
«Fuga? E dove? L’intero pianeta sta saltando in aria, amico mio. I nostri giorni di fuga sono finiti. E quei tizi sono fuori dal raggio di una possibile richiesta di autostop.» Ford frugò nella borsa che portava a tracolla e ne tirò fuori quella che sembrava una sigaretta fatta a mano. «Aaah» sospirò lieto. «La tenevo da parte da tempo.»
Arthur fu felice di avere qualcosa a cui interessarsi. «Cos’è?»
Ford lo guardò storto. «Questo è ancora sarcasmo, giusto?»
«No. È una schietta domanda frutto di ignoranza.»
«Be’, in tal caso, sarò felice di illuminarti, amico. È una sigaretta.»
«Oh.» Arthur sentì il proprio interessamento svanire.
«Ma non una sigaretta qualsiasi» proseguì Ford, tenendo in mano il cilindretto come se fosse stato un graal più o meno sacro.
«C’è dentro un raggio mortale ad ampia gittata?»
«Ovviamente no.»
«O magari un teletrasportatore di materia?»
«Sai, potrebbe essere utile. Però, no.»
«Quindi si tratta di semplici foglie di tabacco arrotolate in una cartina?»
«Tabacco? Carta? Sul serio, Arthur, voi umani utilizzate solamente il dieci per cento del vostro cervello, e quella frazione la riempite di concetti collegati al tè. Questo è un verme albino delle paludi falliane. Deceduto, ovviamente. Trascorre la vita assorbendo gas allucinogeni da tutti i suoi orifizi. Poi muore e diventa rigidino.»
Arthur guardò in su. Un raggio mortale aveva appena affettato e spazzato via il piano superiore, senza neppure rallentare. Un aeroplano piuttosto grosso si avvitava nel pezzo di cielo sopra di loro e Arthur immaginò di sentire qualcuno che cantava Ramaya.
«È una storia lunga? No, è solo che immagino che i nostri minuti siano contati. E credo con numeri a una cifra sola. Probabilmente compresi fra l’uno e il tre.»
«Non è lunga neanche un po’. Gli autostoppisti li chiamano joystick. Un tiro e ti senti avvolto da una gaia beatitudine. Ami tutti, ti dimentichi dei tuoi nemici, roba così. Due tiri e diventi curioso di tutto, compresa la morte orribile che probabilmente sta per coglierti per il fatto stesso di aver acceso questo bimbetto. Sarà fantastico, ti dici. Sto per vivere un dislocamento energetico verso un nuovo piano d’esistenza. Come sarà? Mi farò nuovi amici? Avranno della birra?»
«E al terzo tiro?» chiese Arthur, tenendo fede al suo ruolo nel patto narrativo.
Ford frugò nella borsa in cerca di qualcosa per accendere. «Dopo il terzo tiro, il cervello ti esplode e ti senti un po’ irritabile.»
«Ah» fece Arthur, chiedendosi quanti autostoppisti fossero deceduti prima di scoprire la faccenda del terzo tiro.
«Eccoci» disse Ford, prendendo un accendino di plastica con la scritta il dominio del re fatta di lucine intermittenti. «Un tiro o due?»
Arthur non era mai stato un gran fumatore. Ogni volta che aveva provato a fumare, si era sentito talmente in colpa verso i polmoni che i genitori gli avevano dato, da sentirsi parecchio male. A una festa, ai tempi delle superiori, aveva tentato di starsene buono a ciondolare sul patio gingillandosi fra le dita una Silk Cut blu, ma poi aveva finito per vomitare sulla padrona di casa nel tentativo di non farlo sul chihuahua. Il ricordo gli dava ancora un brivido, e si guardò intorno per accertarsi che nessuno degli invitati fosse lì a additarlo.
«Io no, grazie. Stomaco debole.»
«Okay, amico» disse Ford, facendo scintillare l’accendino. «Gaia beatitudine, aspettami!»
«Ti dico addio adesso, allora, Ford. Sono felice di ogni singolo istante che abbiamo vissuto assieme.»
«Davvero?»
«No. Non direi. Ce ne sono stati alcuni di cui avrei potuto fare a meno.»
“L’istante in cui è scomparsa Fenchurch, per esempio.”
Ford aveva aspirato una sola boccata dal joystick, quando un gigantesco cactus di gelatina apparve d’un botto nel centro della sala. Tremolò per un istante, poi si trasformò in un enorme occhio iniettato di sangue. L’occhio percorse forsennato con lo sguardo l’intera stanza, poi si rovesciò all’indietro e diventò un quartetto di calamari Pom Pom, che suonavano migliaia di kazoo in perfetta armonia.
«Splendido» disse Ford, asciugandosi una lacrima dagli occhi. «Mi fa sentire così... Non ci sono parole.»
I calamari intonarono una nota stridula, poi sparirono in un turbinio di bolle argentee e iridescenti, che esplosero sonoramente per diventare un’astronave bianca, una lacrima luccicante con un pugnetto di alettoni a forma di gambo di sedano.
«La Cuore d’Oro» mormorò Arthur. «È uno scherzo, vero?»
nota della guida Quell’astronave era così strafiga che sarebbe bastato un solo sguardo al suo dépliant per sbalzare un adolescente di sesso maschile dritto dritto fino all’andropausa. La Cuore d’Oro era mossa, oltre che da motori tradizionali, anche dal rivoluzionario Reattore a Improbabilità, che permetteva alla nave di trovarsi simultaneamente in tutti i luoghi esistenti, fino al momento in cui essa stessa non avesse deciso dove desiderava recarsi. Coincidenze, déjà vu e un incremento di posta indesiderata erano classici effetti collaterali del campo di spinta non convenzionale della Cuore d’Oro.
Ford spense la punta del joystick contro la suola della scarpa, poi gettò la sigaretta nella borsa. Balzò in piedi. «Andiamo, Arthur. Non avere quella faccia sorpresa. La Terra viene distrutta e noi veniamo salvati da Zaphod. E sempre così che va a finire, qualche dettaglio e mezza dozzina d’anni luce in più o in meno. Che viaggio, gente. Un viaggio cosmico.»
«Ma allora perché il joystick?»
«Un tiro soltanto, mio caro. Gaia beatitudine. Credo torni utile, prima di una rimpatriata con Zaphod.»
Arthur discese gli scalini incespicando. «E Tricia? Non dovrebbe venire con noi?»
«Ehi, Trillian è la stessa persona. Il destino ne sceglie uno solo fra tutti. Sii felice per Tricia, è su un altro piano. Pura energia. Non vedi i colori?»
Arthur lo guardò torvo. «I colori verdi dei raggi mortali? Sì, li vedo. Preferirei farlo da una grande distanza, però, perciò ti dispiacerebbe se ce ne andassimo?»
«Assolutamente no, Arthur. Se non ce ne andiamo subito le mie scarpe frughe si rovineranno. Benché quella blu potrebbe anche prendere una gradevole sfumatura porpora, cosa che mi renderebbe enormemente felice.»
Arthur condusse Random con dolcezza verso la nave bianca e luccicante. «Su. Dobbiamo andare, adesso.»
«Fertle» mormorò la ragazza. «Voglio il mio Fertle.»
«Voglio il mio Fertle!» ridacchiò Ford giocoso, solleticando Trillian. «Suona bene, non trovi?»
L’astronave bianca fu percorsa da un tremolio e un portello si aprì con delicatezza, discendendo telescopicamente verso il terreno. Zaphod Beeblebrox, Presidente Galattico, latitante interplanetario e zelante impresario di se stesso, apparve sulla soglia, l’ego di dimensioni planetarie che brillava dagli occhi vispi, i boccoli d’oro che gli ballonzolavano sulle spalle. Molto anello esterno, ma aveva un suo perché.
«Okay, fatemi concentrare un attimo» disse Zaphod, picchiettandosi le tempie. «Ave, o terrestri. Sono venuto ancora una volta a salvarvi.» Poi parve accorgersi della distruzione planetaria che gli si parava dinanzi agli occhi. «Aspetta un attimo... Questa non è l’Irlanda!»
Ford corse sulla passerella per abbracciare il suo semicugino.
«Zaphod! Sono felice di vederti.»
Zaphod sbarrò gli occhi. «Felice di vedermi? Devi avere fumato qualcosa.»
Si accalcarono sulla Cuore d’Oro che sfrecciò in su di qualche decina di metri, utilizzando il programma ScansOmatic, per evitare i raggi mortali, finché non si fosse innestata la propulsione a Improbabilità Infinita, che li avrebbe sparati ovunque non si sarebbero mai aspettati di andare.
Ford Prefect fu l’unico occupante della nave a cui venne in mente di guardare in giù, e così vide una GGAS-2 dall’aria derelitta ondeggiare attorno all’unico lampadario sopravvissuto del Club Beta; scansò indifferente un raggio mortale ronzante e poi, con un’alzata di spalle che pareva dire “che importa”, collassò su se stessa come un uccello origami appallottolato da mani invisibili, fino a che di essa non restò che un diamante d’oscurità che saettò per la sala senza tetto, decapitando un topo per pura malvagità, per scomparire infine, con un brillio, da ogni esistenza in ogni tempo.
“Una seccatura in meno” pensò Ford, e poi andò in cerca di qualcosa da bere.
Se Ford non fosse andato in cerca di qualcosa da bere, avrebbe visto un uomo alto, sulla trentina, in vestaglia e ciabatte, che entrava zoppicando nel Club Beta, l’asciugamano stretto in pugno. L’uomo ebbe appena il tempo di rivolgere uno sguardo al cielo in preda a un confuso stupore, e un raggio mortale color smeraldo fece esplodere in atomi lui e il suo amico dai capelli rossicci.
nota della guida Quella fu solo una delle innumerevoli dipartite di Arthur Dent. Adesso che un Arthur era riuscito a spezzare lo schema cosmico saltando da una dimensione all’altra e facendosi salvare, lo schema si disfece per i restanti altri, che vennero abbattuti uno dopo l’altro, con improbabili incidenti frettolosamente abborracciati da un Fato collerico.
Un Arthur rimase folgorato da un paio di cuffie malfunzionanti mentre registrava per una radio locale un programma nel quale dissertava dei recenti avvistamenti di ufo nella zona (macabro umorismo cosmico).
Un secondo Arthur si svegliò un mattino convinto di essere in grado di volare, e non ci fu modo di impedirgli di scalare una torre della radio e di gettarsi nel vuoto.
Un terzo fu schiacciato da un balladozer mentre protestava per salvare casa sua. Il balladozer non subì alcun danno fisico ma rimase traumatizzato dall’evento e procedette col denunciare il consiglio comunale, citando specificamente al processo un certo signor Prosser, che fu licenziato in tronco.
Un altro Arthur annegò durante un acquazzone anomalo poco dopo aver mostrato il dito medio di entrambe le mani a un camionista che l’aveva sorpassato malamente in autostrada.
La lista è pressoché infinita. Basti dire, senza citare una per una tutte le singole morti, sventure o avventure, accidentali (o cercate), occidentali, dentali, mentali, ambientali, fatali, fetali, fecali o decoramentali (asfissiato da una decalcomania), giusto per citarne qualcuna, che fra tutte le dimensioni fu un solo Arthur Dent a sopravvivere dopo la distruzione finale, unica definitiva e senza astute scappatoie, del pianeta Terra. Altrettanto dicasi per Ford Prefect e per Trillian, ma non per Random o Zaphod, tanto ligi ai propri ruoli pandimensionali da meritarsi delle stellette d’oro.
Letture correlate:
Qualcuno vuole farmi la pelle, di Arthur Dent 2803
Mio marito credeva di saper volare, di Signora A. Dent 1107
L’ultimo Arthur Dent sopravvissuto era seduto nella sua solita postazione sul pavimento della cabina di pilotaggio della Cuore d’Oro, e si batteva ripetutamente il capo su uno scaffale familiare, senza però trovare pace. Era forse per via dei raggi mortali verdi che brillavano da un capo all’altro degli schermi, o forse perché da qualche parte, nei recessi del suo essere, nel pulviscolo astrale che costituiva i suoi atomi, Arthur aveva la consapevolezza di essere lui l’ultimo Arthur Dent dell’universo. L’unico, davvero, nella sterminata immensità di tutta la roba esistente.
L’unica cosa che Arthur sarebbe riuscito a esprimere a parole era che gli mancava il suo asciugamano, e che sarebbe stato disposto a pagare un’ingente somma di denaro per qualcuno provvisto di un petto bello morbido che lo abbracciasse dicendogli che sarebbe andato tutto bene.
Trillian e Random erano anche loro piuttosto depresse per tutta quella storia della distruzione totale del loro pianeta natale, e stavano accucciate strette l’una all’altra sotto il refrigeratore. Ford Prefect, dal canto suo, era decisamente su di giri, grazie all’unica boccata al suo verme pietrificato.
«Ma è fantastico!.» esclamava esaltato, battendo sulla spalla di Zaphod. «Guarda quei raggi. Avevi mai pensato di arrivare a vedere in vita tua un reticolo di raggi della morte dall’interno?»
«I grebulon, wow. Quei tizi sono inesorabili» rispose il cugino con altrettanto entusiasmo (Zaphod era per sua natura un uomo da prima boccata a tempo pieno). «Che spettacolo di luci. Ti ricordi di quelle testate termonucleari a Magrathea?»
«E come no» fece Ford nostalgico. «Davvero notevoli. Delle astuti birbantelle, con quei piccoli scarti e quelle finte improvvise, ma siamo riusciti a togliercele dai piedi.»
«Altroché, cugino. E ci toglieremo dai piedi pure questi grebu-cosi.»
Trillian ebbe un sussulto mentre un raggio arrostiva l’alettone di babordo dell’astronave. «Non potremmo andarcene e basta?»
Zaphod roteò su se stesso come un cubista in discoteca puntandole due dita a mo’ di pistola. «Pùm, pùm, piccola. Aah, mancata! Anch’io ti sono mancato, vero? Scommetto di sì...»
«Lascia perdere, Zaphod. La nave è in grado di portarci in salvo?»
«Non è così semplice. Non possiamo schizzare in mezzo al reticolo senza finire a fettine come della Grevlova Sibarita Halitoxicana. Dobbiamo lasciare che il propulsore a improbabilità scorra un po’ di numeri e trovi di testa sua la soluzione al problema.»
«Perché, il computer adesso ha una testa?»
Zaphod danzò una giga presessuale betelgeusiana. «Finalmente qualcuno si è deciso a parlare di teste. Cominciavo a pensare che foste tutti sotto joystick.»
«Perdonaci, Zaphod» sbottò Arthur. «Eravamo un po’ distratti dall’incombere di una morte violenta.»
«Certamente, il computer ha una testa» proseguì Zaphod, senza badare alle parole di Arthur. «Su, gente. Non avete notato nulla di diverso, in me?»
Capirono tutti allo stesso istante.
«Goosnargh» disse Ford.
«Ma che... » fece Trillian.
«Caspiterina» disse Arthur, con perfetto stupore da turista britannico nell’iperspazio.
Le spalle di Zaphod Beeblebrox ospitavano, elegantemente appollaiata, una testa soltanto.
nota della guida Le due teste e le tre braccia di Zaphod Beeblebrox sono entrate a far parte del folklore galattico tanto quanto lo zaffo cranico della Vorace Bestia Bugblatta di Traal o la terza poppa di Eccentrica Gallumbits. E malgrado Zaphod sostenga di essersi fatto impiantare il terzo braccio per migliorare le sue prestazioni a ski-boxing, molti esperti dei media ritengono che il terzo braccio sia stato in realtà innestato per permettere al Presidente di palpeggiare in contemporanea tutte le poppe di Eccentrica. Quest’attenzione verso l’elemento erotico crebbe ulteriormente in seguito all’intervista rilasciata dalla signora Callumbits alla testata “Passeggiatrice Moderna”, nella quale Zaphod veniva definito come “la bottarella più potente dopo il Big Bang”, affermazione che gli valse almeno un miliardo di voti durante le elezioni presidenziali e una quantità quasi doppia di contatti nella sezione privata del suo sito confidenziale sub-Età.
L’origine della seconda testa di Zaphod è avvolta nel mistero, e pare essere l’unica cosa di cui egli sia riluttante a parlare con i media: interrogato sull’argomento, il presidente si limitò ad affermare che era meglio avere due teste che non averne affatto, affermazione questa che il Consulente d’Ambasciata Spinale Trunco della tribù dei Cavalieri Senza Testa di Jaglan Beta considerò un’allusione diretta. La risposta di Zaphod all’accusa fu: “Ma certo che era un’allusione diretta, baby! Gente, questo tizio non ha neppure una testa!”. Anche in foto meno recenti Zaphod appare con due teste, ma in molte di queste i due visi non sono identici. A dirla tutta, in un fermo immagine noto come “io e l’imbecille”, come testa sinistra di Zaphod figura quella di una donna di carnagione olivastra intenta a cercare di mordere l’orecchio alla testa destra. Solo in seguito sarebbe venuta allo scoperto una donna betelgeusiana che sosteneva di essere la vera proprietaria della testa dal viso olivastro. Loolu Caresse, questo il nome, riferì al Beebleblog che “Zaphod voleva che stessimo assieme tipo tutto il tempo, e così ci congiungemmo. Dopo un paio di mesi scoprì che la cosa che gli piaceva davvero non ero io, ma il fatto di avere due teste. Così una sera uscimmo a farci qualche Gotto Esplosivo Pangalattico e quando mi risvegliai ero di nuovo nel mio corpo. Bastardo”.
Zaphod non ha mai smentito la versione della signorina Caresse, e la cosa diede luogo a speculazioni sul fatto che la seconda testa non fosse che un’ostentazione narcisistica, accusa che il Presidente Beeblebrox affermò di non comprendere.
Letture correlate:
Faccia a faccia con il Presidente, di Loolu Caresse
Una poppa dopo l’altra, di Eccentrica Gallumbits
«Alla fine te la sei fatta togliere» disse Ford mentre si mordeva il labbro, operazione non facilissima. «Farsi staccare una testa suona come un atto da imbecille, ma per qualche strana ragione sono del tutto favorevole.»
Arthur la conosceva, la ragione. Il suo amico stava ancora cavalcando in groppa al verme.
«Sei certo che sia stata una buona idea, Zaphod? Quella testa non aveva qualche utilità?»
Zaphod alzò un dito, come chi sta per fare un annuncio importante. «Chiudi il becco, primate. Sto parlando con mio cugino.»
«Credevo che avessimo superato quella fase. Non ne abbiamo già passate abbastanza?»
Zaphod arretrò con un sobbalzo. «Oh, ehi, Arthur. Sei tu, amico? La mia altra testa ci vedeva meglio. E poi non ti riconoscevo senza l’accappatoio.»
«Vestaglia, prego.»
«Come vuoi. Soffermiamoci sulle sole informazioni essenziali, in questo momento. I raggi mortali, eccetera.»
«È essenziale sapere che fine ha fatto la tua altra testa?» sbottò Arthur, mantenendo la sintassi più semplice che poteva.
Zaphod batté le mani. «Aah, ecco. Certamente! Vi piacerà un sacco, questa cosa.»
Si avvicinò con una danza da granchio alla bassa console a mezzaluna del computer. «Signore e signori, eccolo, e spellatevi le mani in un applauso, perché le vostre vite sono nelle sue, di mani!»
«I raggi mortali!» strillò Arthur, mentre lo ScansOmatic faceva fare una piroetta stretta all’astronave. «Non dovremmo occuparci di quelli?»
Ford gli prese affettuosamente le guance tra le mani. «La vita è fatta di momenti, Arthur» fece, tutto serio. «È questo il segreto. I momenti durano più a lungo di quanto tu non creda. E se sommi tutti i bei momenti, allora, be’... è una cosa tipo secoli.»
Ciò che davvero fece infuriare Arthur fu che quel ragionamento poteva persino avere un senso.
«Molto bene, Ford. Credi sia possibile permettere alle signorine di vedere l’altra testa di Zaphod?»
«Non trattarci con condiscendenza» sbottò Random.
«Ma certo, piccola mia.»
«Fottiti.»
Zaphod batté per terra il tacco dello stivale argentato. «Vi spiacerebbe tornare al mio grande momento? La testa, ricordate?» Digitò sul computer un breve codice sequenziale.
«Non granché come codice, eh?» commentò Arthur. «Uno due tre?»
Zaphod lo guardò torvo. «La vista e i numeri... Me la cavo davvero maaaale con le cosucce da poco della vita. Sono molto più portato sul versante del campione avanguardista retroilluminato pioniere e sperimentatore di nuove tecniche del boudoir. A occuparsi delle cosucce da omuncoli è la testa numero due. O, come la chiamo io, Cervello Sinistro, nel senso che era dal lato sinistro, e che lui è quello che fa tanto l’intelligentone.»
«Mostraci questa testa!» urlò Arthur.
Zaphod premette un pulsante rosso col pollice, e da un contenitore di gel nella console emerse un globo trasparente, che si elevò pian piano fino a galleggiare all’altezza di un uomo di media statura.
«Il gel è pieno di roba, sapete» spiegò Zaphod, vago. «Roba che serve per fare delle cose che vanno fatte.»
«Per favore, chiudi il becco, fratello» disse la seconda testa di Zaphod, che giaceva su un cuscino di cavi e fusibili all’interno della sfera. «Ti stai mettendo in ridicolo. E stai mettendo in ridicolo pure me.»
Cervello Sinistro era quasi perfettamente identico a Zaphod, salvo che per qualche piccolo dettaglio di stile. Laddove il Presidente Galattico sfoggiava una sgargiante zazzera ossigenata e forse l’eyeliner, Cervello Sinistro portava i capelli a spazzola con una scriminatura austera e gli occhi gli brillavano di un intelletto guizzante come laser e di una salda tenacia di propositi.
«Il gel è un composto elettrolitico che nutre le mie cellule organiche e alimenta il campo antigravitazionale che circonda il globo.»
«E anche gli altoparlanti, Ci-Esse» disse Zaphod. «Un uomo avrà pur diritto a produrre dei suoni.»
«Certo, C-Zeta» sospirò Cervello Sinistro «gli altoparlanti. Adesso, non avresti qualcuno a cui andare a sorridere allo specchio?»
Zaphod si appoggiò stancamente sulla console. «A volte mi dico che separarci potrebbe essere stato uno sbaglio. Ma da quando Cervello Sinistro ha tolto a Eddie il controllo dell’astronave non siamo esplosi neppure una volta. È una cosa positiva, no?»
«Adesso che l’astronave non è più comandata da quell’imbecille del mio predecessore, la nostra aspettativa di vita è aumentata dell’ottocento per cento.»
Random, da statista qual era, annuì in segno di apprezzamento a quella statistica.
Arthur picchiettò col dito sulla sfera. «Ehi... Zaphod... Cervello Sinistro. Sei tu che guidi l’astronave? Potresti portarci via di qui?»
«Per favore non toccare il vetro, terrestre. Non hai idea di quante volte io debba rigirarmi nel gel per cancellare le ditate.»
«Scusa.»
«Per rispondere alle tue domande: sono attualmente interfacciato al programma ScansOmatic così da permetterci di evitare i raggi mortali grebulon. Proprio mentre parliamo, il loro reticolo vi sta stringendo, quindi prima innestiamo il propulsore a improbabilità, meglio è.»
«E quando sarebbe previsto ciò?»
«Novanta secondi. Diversi minuti prima che i raggi mortali possano arrivare a distruggere l’astronave.»
«Ne sei certo?»
Cervello Sinistro non parve apprezzare la domanda. «Poiché sei nuovo qui, e ci siamo appena conosciuti, ti spiego meglio. Io sono l’astronave, l’astronave è me. Non esiste possibilità di informazioni errate.»
«Nuovo? Sono già stato qui, amico. E ci conosciamo già, solo che l’ultima volta...»
«Ero ancora attaccato a Zaphod l’idiota.»
«Yuu-huu!» urlò Zaphod. «Ti sta infinocchiando, Artù. Non dare troppa confidenza a questo tizio.»
«Soggiogato dalla sua personalità chiassona» proseguì Cervello Sinistro. «Dominato dal suo edonismo straripante.»
«Ti ho avvertito, terrestre. Poi non dire che non te l’avevo detto. Guarda che Cervello Sinistro ti scortica vivo, e con la tua cotenna ci fa i ciccioli.»
Cervello Sinistro si girò su se stesso e puntò il suo sguardo su Zaphod. «Quella scimmia inconcludente mi ha tenuto chiuso nella mia stessa testa fino a quando non sono riuscito a insinuargli l’idea della separazione nel torpore etilico dopo uno dei suoi bagordi. Zaphod è un tale gobe-mouche da essere davvero convinto sia stata farina del suo sacco.»
Gli occhi di Zaphod si annebbiarono. «Gobbamoscia? Ripetilo, se hai il coraggio.»
Pur se era impensierito dalle possibili implicazioni della rivalità fraterna, o sdoppiamento di personalità, o qualunque fosse il corretto termine medico per spiegare la dinamica fra le due teste, Arthur decise di soffocare le proprie perplessità per il bene di Random. Erano in salvo, dopotutto. Random era in salvo, e questa era l’unica cosa che contava. Arthur sapeva per esperienza diretta che la perdita del suo pianeta natale gli avrebbe abbattuto il morale nell’imminente futuro, probabilmente all’ora del tè quando non ci sarebbe stato del tè, o forse in seguito a un olotramonto molto bello, ma per adesso era determinato a far buon viso a cattivo gioco per il bene della figlia.
«Okay, ascoltate tutti» disse, con voce chiara e opaca come una lampada al neon. «Emergenza chiusa, per il momento. Che ne direste di allacciarci le cinture nell’imminenza della gitarella a Improbabilità?» Ridacchiò. «Sappiamo tutti quanto possano essere strambe.»
Random si batté il petto, nel punto dove era solito appollaiarsi Fertle. «Strambe, Arthur? Strambe? Chi vuoi prendere in giro? E quella era la risatina più forzata che io abbia mai sentito. Non arriverai mai a valere neppure la metà di mio marito.»
“E ancora una volta è tutta colpa mia” pensò Arthur. “Forse dovrei fingermi allegro più spesso, così magari la gente ci cascherebbe.”
«Suppongo che questo computer non abbia imparato a preparare il tè, vero?»
Una luce rossa lampeggiò sopra il globo di Cervello Sinistro. «Taci adesso, terrestre. La parola “tè” è stata posta sotto segnalazione. L’ultima volta che hai chiesto del tè hai mandato in tilt l’intero sistema in un momento di emergenza.»
Un altro risolino forzato di Arthur, seguito da un piccolo espediente e da un’uscita alla chetichella verso la galleria panoramica. «Vado a dare un’occhiata a quel reticolo di raggi mortali. Controllo come procedono le cose. Qualcuno vuole qualcosa?» Nessuno si curò di rispondergli.
nota della guida La frase “Qualcuno vuole qualcosa ?”è un clastico passe-partout da uscita e può essere utilizzata ogniqualvolta circostanze sgradevoli di vario tipo, da un lieve imbarazzo all’incombere di un’enorme catastrofe, si profilino inesorabili all’orizzonte. Gran parte ilei le culture esistenti dispone di una propria variante della frase “Qualcuno vuole qualcosa?”‘, ed è così evidente che si tratta di domande retoriche che nessuna di queste necessiterebbe davvero del punto interrogativo. I betelgeusiani chiedono: “Qualcuno ha sentito un plònfete? (come una pallina da tennis che cade in una ciotola di crema pasticcerà? Nessuno? Meglio che vada a controllare”. La versione jatravartid è: “Qualcuno ha sentito la porta cristallare? Dev’essere Poople. In ritardo come al solito. Meglio che vada e lo faccia entrare, prima che gli ti riempia il fazzolettino”‘.
Con sollievo di Arthur, nessuno ruppe il protocollo interstellare chiedendo davvero qualcosa, e poté così sgattaiolare nella galleria panoramica e immaginare di essere di nuovo sulla sua spiaggia.
Ford batté le nocche sulla console, ascoltando i “bong”. «M’ero dimenticato quel “bong”, Zaph. Sai, i rumori, cose così. Ti dimentichi tutto di loro e poi ti capita di risentirli e ti ricordi di quanto siano importanti per te. Poi ti chiedi dove fossero andati a finire i ricordi per tutto quel tempo in cui non ci avevi pensato.»
Zaphod non ebbe alcuna difficoltà a entrare nella sua frequenza d’onda. «Ho sempre pensato che i miei ricordi fossero in fondo al corridoio, nella testa numero due. E, nel caso ne avessi avuto bisogno, la testa numero due avrebbe potuto rizaffarmeli indietro.»
«Wow. È proprio tipo così. Tipo l’essenza di quello che sto cercando di comunicare. Vi guardavate l’un l’altro negli occhi, voi due, mentre lui ti rizaffava i ricordi?»
«Assolutamente no» disse Cervello Sinistro, ballonzolando appena a dispetto del suo campo giroscopico. «La sua teoria è ridicola. Siamo entrambi provvisti di corteccia.»
Ford danzò attorno al globo fluttuante, stringendolo con delicatezza come una sfera di cristallo. «Ma certo, però tu sei quello con il cervellone. Non sei tu quello geniale collegato con la Propulsione a Improbabilità Infinita?»
Cervello Sinistro non poté trattenere un piccolo sorrisetto di soddisfazione. «Questo è vero. Io controllo la propulsione. Fa parte di me, adesso. Percepisco ogni sua singola alcatorietà.»
Gli occhi di Ford erano annebbiati, ma ancora vispi. «E allora spiegami com’è che vi stavo aspettando.»
Cervello Sinistro si bloccò a mezz’aria. «Che?»
«Già. Proprio così, testacchione. Sapevo già che sareste spuntati.»
«È ridicolo. Come avresti mai potuto saperlo? Le probabilità che la sola persona nell’universo in grado di salvarvi potesse spuntare esattamente quando ne avevate bisogno erano di centocinquanta miliardi a uno. Probabilità accettabili per il propulsore.»
Ford si permise di dissentire. «Dipende da come cal-co-li, amico.»
«C’è solo un modo di calcolare» disse Cervello Sinistro, inflessibile.
«Oh, no» disse Ford con il tono di chi ha trascorso fin troppe ore in alberghi di quart’ordine senza avere abbastanza crediti per la macchinetta Popp-A-Palper, e costretto a ripiegare sulla lettura della propria guida. «Ci sono molti modi di calcolare. L’intero sistema matematico dei Vl’hurg si basa sulle interiora.»
nota della guida Ciò non è del tutto corretto. Tale sistema tiene conto anche dei peni essiccati dei Velocàni.
«E io stesso» proseguì Ford con voce così petulante che avrebbe potuto spingere delle forme di vita unicellulari ad accelerare la propria evoluzione in modo da poter utilizzare i neonati pollici opponibili per raccogliere una roccia e scagliargliela «io stesso baso la gran parte dei miei calcoli sulle emozioni.»
«Emozioni!» sputacchiò Cervello Sinistro in tutto l’interno del suo globo. «Emozioni? Come fai con una testa sola a essere così stupido?»
«Mi piace essere stupido. Permette di vedere le cose con chiarezza. Essere stupidi è come stringere gli occhi ai raggi del sole.»
Ogni sua affermazione sballottava la sfera di Cervello Sinistro come la sferzata di un asciugamano bagnato. «Raggi del sole? Ma che dici? La stupidità è ignoranza e oscurità.»
«Dunque avevi pianificato di venire qui? Sono queste le coordinate che avevi scelto?»
«No» ammise Cervello Sinistro. «Il punto esatto era già stato distrutto, quindi il propulsore ci ha spostati al sicuro.»
«E di tutti i punti nell’universo, l’astronave vi porta qui.»
«Coincidenza. Un riflusso spurio del propulsore a improbabilità.»
«Questa è più che una coincidenza. Zaphod viene a salvare il suo cugino preferito. Quanto è improbabile ciò? È accaduto in passato nelle immediate vicinanze di questo preciso pianeta. Una volta ancora e diventa uno schema predefinito. E, a meno che le cose non siano cambiate dall’ultima volta che ho verificato, gli schemi non sono granché improbabili.»
altra nota della guida Quest’ultima era una menzogna, Ford Prefect non aveva mai letto o verificato nulla sulla probabilità degli schemi. Ed era ben raro che egli verificasse alcunché, a parte quanto fosse pieno il suo bicchiere o il livello di frughezza generale. Una volta aveva pagato il corrispettivo di un mese di stipendio per un frugo-detector che funzionava solo se la frughezza dell’operatore stesso era sufficiente per alimentarlo. Ford l’aveva provato una sola volta in bagno, quindi lo aveva ficcato a viva forza nel compattatore per la spazzatura con tutto lo scontrino.
Cervello Sinistro dondolava all’indietro sul suo asse delle ascisse. «Sì, è vero che gli schemi non sono modelli adeguati per l’improbabilità.»
«Generalmente, vero?»
«Generalmente.»
«L’avverbio “generalmente” non suona molto improbabile. Non sembra molto zenzizenzizenzico contro uno. Mi suona più come una puntata alla pari.»
«S-sì» balbettò Cervello Sinistro. «Non hai tutti i torti.»
«Stai sudando, amico? Da quando in qua le teste robot sudano?»
Non c’era alcun dubbio, Cervello Sinistro stava traspirando copiosamente. Dei piccoli ragnobot gli emersero dal colletto, banchettando con le gocce di sudore
«Non sono un robot» protestò Cervello Sinistro.
«Ehi, galleggi in una bolla di gas, sei connesso a un computer. Dal collo ti spuntano dei ragni. L’ultima volta che ho verificato, tutte queste cose gridavano robot.»
nota della guida: Anche qui nessuna verifica. Un’assoluta bufolazzata.
«Benché» mormorò Ford, accarezzandosi in prossimità del mento «l’intero casino della Propulsione a Improbabilità è molto sui territori dell’essenza organica.»
«Intero casino» disse Cervello sinistro nervosamente. «Davvero lo pensi?»
«Assolutamente. Ma ci soffermeremo dopo su quello, e in maniera approfondita, con grande imbarazzo per uno di noi. Adesso, che ne diresti di accendere quel propulsore e mandarci in qualche posto che sia davvero improbabile?»
La lucetta in cima alla sfera di Cervello Sinistro pulsò di un malaticcio colore verdognolo e flussi numerici lampeggiarono sul vetro. «Improbabile? Ma come calcolare? Come... Tutto ciò in cui credo. I numeri sono fallibili? Può essere vero? Può?»
Ford cominciava a smaltire la sbornia. «Ehi, amico. Non pensarci. Ti sto solo rigirando il pormozuffolo. Diglielo, Zaphod.»
Zaphod pose il braccio sulle spalle del cugino. «È vero, amico. Sei stato inzuffolato dal migliore di tutti. Il nostro Ford una volta riuscì a spingere un Santo Grandarcifrate Pranzista di Voondon ad aggredirlo con degli stuzzicadenti.»
«Per scommessa» disse Ford, che non voleva che la gente credesse che se ne andava in giro a stuzzicare stizza nei frati senza alcuna ragione.
Cervello Sinistro era prostrato dall’angoscia. «Il computer mi canta di numeri, ma voi... voi due bufolazzoni con le vostre bufostrulazzerie!»
«Ehi, vacci piano con i bufo» disse Ford, piccato. «Sto solo cercando di socializzare. Del tipo, colpirti con il mio intellettualismo anticonformista.»
«È solamente tutto... È solamente troppo... Numeri. Emozioni. Zark!»
Al che, Cervello Sinistro si bloccò in loop iterativo. Un loop molto breve. Una parola sola, ripetuta all’infinito.
«Zark... Zark... Zark...»
Il terzo braccio di Zaphod sbucò da sotto la camicia di seta sgualcita, e mollò un ceffone sulla testa di Ford.
«Idiota. L’hai inceppato.»
«Il braccio te lo sei tenuto, allora.»
Zaphod infilò la mano extra che gli sbucava dal petto nella tasca sinistra dei pantaloni fasciami.
nota della guida Non si tratta di un’espressione figurata. Zaphod s’era davvero comprato a Port Sesefron dei pantaloni che s’indossavano fasciandoseli attorno alle gambe, e anche un secondo paio spray, che bastava spruzzarsi addosso da una bomboletta; lo strillo sulla confezione prometteva di “raggiungere persino quei punti difficili”. Dopo la prima applicazione, Zaphod aveva deciso di ridurre un po’ la potenza dello spruzzo. C’era pure un beccuccio particolare per fare le tasche.
«Utilizzo il terzo braccio prevalentemente per usi cerimoniali. Ci metto su una manica viola, e, oplà, funge da stola liturgica.»
Ford continuò a cianciare, niente affatto colpito da Cervello Sinistro. «Non ci ho messo tanto a incepparlo. Avresti dovuto aspettare che uscisse la versione 2.0.»
Trillian si allacciò la cintura sulla lussuosa Poltr-o-Nclina accanto alla figlia, che era tanto ingrugnata da poter nutrire una famiglia di Cyphroli per cinquecento anni.
«Perché non siamo da qualche altra parte, Zaphod? Vedo ancora dei raggi mortali.»
Zaphod tradì il cugino indicandolo con il pollice. «Chiedilo a Ford Imperfect. Ha inceppato la nave.»
Arthur scelse quel momento per fare ritorno dal suo giretto e riaffacciarsi sul ponte. «Inceppato la nave? Qualcuno ha detto “inceppato la nave”?»
I suoi antichi ricordi si ripresentarono istantaneamente e, con disappunto, li trovò non del tutto dissimili dai nuovi.
“Mi manca tanto il senso della sorpresa” si disse. “Quei tempi in cui andavo dritto da calmo a terrorizzato.”
«Qual è il tuo problema, Ford?» chiese. «Sei connesso a qualche circuito che ti obbliga a mandare sempre tutto a puttane?»
«Lui è quello connesso, non io» disse Ford, indicando Cervello Sinistro, che adesso si levava verso il soffitto come un palloncino smarrito.
Arthur percepì l’assenza di qualcosa sul ponte.
«Non so di che si tratti» disse, sondando l’aria con le dita. «Ma c’era qualcosa qui, un attimo fa, che adesso non c’è più.»
Zaphod fu lieto di poter offrire delle informazioni significative. «Lascia che ti illumini io, terrestre. Quando il sistema ScansOmatic è attivato, il computer colora i muri di una luce biancastra. Roba fototerapeutica rilassante per il cervello.»
«E la luce è spenta.»
«Badabingo!»
nota della guida Il Badabingo è un gioco da tavolo fatto dagli ergastolani detenuti nel satellite-prigione in orbita intorno a Blagulon Kappa. Si tratta di un gioco che può avere fino a cento giocatori, l’obiettivo è quello di spostare i propri cavallini tutt’intorno al tabellone fino a riportarli nelle loro stalle, e a quel punto bisogna fare sei per poter staccare via la testa dei cavallini. Non appena l’ultimo cavallino è stato decapitato, chi è in testa salta in piedi e grida: “Badbingol”. Dopodiché, gli tocca cercare di restare vivo fino all’arrivo della squadra antisommossa.
«E questo significa che anche lo ScansOmatic è spento.»
«Bastoncino verde nel buchetto verde, ragazzo.»
altra nota della guida Il grido “bastoncino verde nel buchetto verde” si riferisce a un semplice gioco di accostamenti utilizzato in speciali corsi di recupero per adulti su Betelgeuse Cinque, dove il Presidente Beeblebrox trascorse l’infanzia. Un equivalente striteraxiano della frase potrebbe essere: “Mostri un orgoglio eccessivo per aver portato a termine un compito che poteva essere svolto da un primate di grado inferiore in una quantità di tempo più breve”. I demoniazzi silastici di striterax non erano mai stati bravi con le espressioni figurate, ma erano eccellenti nel dire pane al pane. Pane che era in genere fatto con farina di acciaio temperato e ricoperto di semini velenosi.
«Il che significa che verremo tagliuzzati a dadini da quel loro reticolato lì, proprio come l’intero pianeta.»
Zaphod sbuffò come se avesse appena sentito pronunciare la più grossa sciocchezza della sua vita. «La Terra non verrà fatta a dadini, Artù. Quei raggi mortali surriscalderanno la superficie e vaporizzeranno l’intero pianeta. Tra qualche istante.»
«La cosa è confortante. E di noi che ci dici?»
«Oh, giusto. Il reticolo ha già trovato il sistema per imprigionarci. Noi sì, verremo fatti a dadini. Su questo non c’è dubbio. Bastoncino verde eccetera.»
Arthur premette il viso sull’oblò. Fuori, nello spazio, i raggi verdi fendevano silenziosi l’oscurità, enormi pendoli color smeraldo, che bollivano la superficie del pianeta. Mentre i raggi si avvicinavano dondolando, Arthur vide che erano composti di barre pulsanti che crepitavano di tuoni al loro interno.
Uno bello, grosso e minaccioso penzolava inesorabile verso di loro.
“Mia figlia morirà” comprese. “Ed è questo che mi turba davvero. Scommetto che è giovedì.”
Allontanò il viso dal vetro con un leggero schiocco. «Dev’esserci qualcosa che possiamo fare, no? Non siamo ancora sconfitti, giusto?»
Ford sventolava il joystick sotto il naso di Zaphod. «Secondo te se mi faccio un altro tiro adesso, conterebbe come secondo, o sarebbe un altro primo tiro?»
«Non potremmo far ripartire Cervello Sinistro, chessò, a strappo?»
Zaphod si accigliò. «Domanda complicata, cugino mio. Magari se faccio un tiro io, mi viene la risposta.»
Arthur scoprì che dopotutto la sua ghiandola della sorpresa era ancora viva e funzionante.
«Non vi frega nulla del fatto che moriremo tutti? Come fate a non preoccuparvene?»
Ford gli fece l’occhiolino. «In un pasticcio simile, Arthur, che beneficio può dare preoccuparsi?»
«Non lo so, Ford. Davvero non so. Ma ho una figlia là, seduta. È questa l’unica cosa che so.»
Qualcuno bussò al portello.
«Aprigli tu, terrestre, ti spiace?» fece Zaphod.
Arthur fu tanto generoso da offrire ai due una reazione di sorpresa a scoppio ritardato, con grande spasso dei betelgeusiani.
«Sei tu che devi aprire, è la tua astr... aaahh!»
«Sei buffo, amico!» sghignazzò Ford, battendogli sulla spalla. «Che ti dicevo, cugino? Sono anni che te lo dico. Arthur è uno spasso.»
«Avete sentito?» farfugliò Arthur, timoroso di sperare a voce alta. «Può esserci qualcuno alla porta, nello spazio?»
Il toc-toc si ripeté, un boing tonante che fece sentire Arthur come se fosse stato dentro a un campanile.
«Non preoccuparti per la faccenda del boing» disse Zaphod. «È solo una suoneria. Posso impostarla su un ding-dong se ti piace di più. O su un canto di passero putipù-trintrin, la mia preferita.»
Una luce verde brillava dall’oblò, che cominciò a gorgogliare.
«Aprite il portello!» urlò Arthur, gesticolando esaltato. «Apritelo subito!»
«Non posso» disse Zaphod, per niente scosso. «Il piccolo cuginetto Ix ha rotto l’astronave, ricordi?»
Trillian accarezzò i capelli di Random, poi attraversò il ponte e si diresse verso il portello d’emergenza.
«Improbabilità? Volete l’improbabilità? Voi due idioti che restate in vita così a lungo, ecco cos’è improbabile.»
Protese la mano verso quello che pareva essere un pannello liscio ed estrasse una manovella.
«Apertura manuale d’emergenza. Ricordate?»
«Ehi, zuccherino. Non è la mia astronave. L’ho solo rubata.»
Arthur strinse la manovella e cominciò a girarla finché il sudore non gli scese fino alla mascella. Non ci volle tanto quanto si potrebbe pensare, perché ciò accadesse, dal momento che la vicinanza con i raggi grebulon stava trasformando l’astronave in una pentola a pressione in piena regola.
«Forza, Arthur» lo incitava Trillian, «Forza!»
Arthur aprì la bocca per ribattere che stava mettendoci tutta la forza che riusciva e se magari poteva lasciarlo un attimo in pace dal momento che aveva trascorso suppergiù l’ultimo secolo su una spiaggia senza svolgere alcun faticoso esercizio fisico di sorta e come diavolo le era venuto di mollare la sua inattesa figliola adolescente su Lamuella e squagliarsela a fare un reportage su una guerra che non era mai accaduta? Arthur era sul punto di dire tutto questo, poi pensò che dopotutto sarebbe stato meglio girare la manovella con un po’ più di forza.
Sorprendentemente, il solo pensare a tutte quelle cose lo fece sentire un po’ meglio.
La rotazione da parte di Arthur eccitò una minuscola cellula di plasma, che inviò una scarica attraverso il portello eccitando le molecole quel tanto che bastò per provocare una transizione di fase che sublimò il portello allo stato gassoso.
«Non è affatto ciò che mi aspettavo potesse accadere, insomma» ansimò Arthur.
Un umanoide verde di razza aliena era ritto davanti al portellone, e si torceva le dita. Era un esemplare impressionante, se per impressionarvi bastano una muscolatura sviluppata, un’ampia fronte spaziosa, degli occhi scuri e tormentati e un abito così elegante che al solo pensarci potrebbe venirvi un attacco d’emicrania.
«Pesce Babele?» disse l’alieno in tono educato, ma appena un pizzico nervoso. «Ditemi solo che avete il Pesce Babele.»
Zaphod spalancò le braccia. «Pesci Babele a profusione.»
«Oh, grazie a Zarquon» fece l’alieno, entrando. «Seriamente, se entro solo in un’altra stanza piena di grugniti e sguardi interrogativi... Ma che cos’ha la gente? Compratevi una dozzina di pesci e fateli riprodurre, no?»
«La gente è proprio dozzinale» convenne Zaphod.
L’alieno si fermò sui suoi passi. «Cosa? No, non è possibile.»
Zaphod si tirò indietro una ciocca di capelli. «Ebbene sì, bellezza.»
«Zaphod Beeblebrox? Il Presidente Galattico Zaphod Beeblebrox?»
«Vivo e procreante, sir.»
«Non posso crederci. Be’, questa è una sorpresa inaspettata per i miei archivi. Ti fermi nelle zone isolate e inesplorate alle propaggini dimenticate del Braccio spiralato Ovest della galassia, e a ondeggiare per l’atmosfera ti ritrovi nientepopodimenoché...»
«Zaphod Beeblebrox» completò Arthur, ansioso di far smuovere le cose. «Ascoltate, detesto fare il guastafeste ansioso, ma quei raggi mortali si avvicinano pericolosi. Quello lì grosso in particolare.»
L’alieno verde non gli badò. «Signor Presidente. È da tantissimo tempo che desidero dirvi una cosa. Ho preparato una cosa. Potreste concedermi un secondo? Ne sarei molto felice.»
Zaphod fece un passo indietro, nell’eventualità che l’alieno non fosse in grado di vedere ogni singolo centimetro di lui.
nota della guida Per essere esatti, non c’è alcun alieno nell’astronave, soltanto dei semplici viaggiatori. Non appena l’identità dell’alieno verrà svelata potremo abbandonare questa definizione.
«Certo che puoi dirmi qualche parola. I miei colleghi ne sarebbero onorati. Io sono troppo importante per sentirmi onorato, ma ne sarei moderatamente compiaciuto.»
L’alieno fece un lieve inchino, tirò fuori dalla giacca del completo un computer ultrasottile, individuò un file di testo e si schiarì la voce.
«Voi, Signor Presidente...» cominciò.
«Prego, procedi.»
«Voi, Signor Presidente...»
«Già sentito, va’ avanti.»
«Voi, Signor Presidente, siete la più filosofunculistica, balorda, steatopigica disgrazia di politico che io abbia mai avuto la ventura di non votare, e se avessi pensato per un solo istante che questo universo merdoso meritasse alcunché di meglio, avrei pagato, e di tasca mia, comprenderete, per farvi assassinare.»
Zaphod era arrivato a comprendere per metà l’ultimo insulto. «Steatoché?»
«Steatopigico. Culone.»
«Culone!» boccheggiò Zaphod, grattandosi le labbra. «Culone?»
La memoria di Arthur non aveva ancora smesso di riaffiorare, gli ci volle qualche attimo persino con quello stimolo scandito così bene.
«Ehi, ma io ti conosco! Tu sei il tizio degli insulti.»
L’alieno scattò una foto di Arthur con il computer, poi cercò una corrispondenza nei suoi archivi.
«Ah, sì. Arthur Philip Dent. Cretino e deficiente integrale. Ti ho già servito, dicono i miei archivi.»
Zaphod si lasciò ricadere le mani sulle ginocchia. «Culone. Mi sento mancare.»
nota della guida L’alieno, si può adesso rivelare, era Wowbagger l’Eterno Prolungato, che era diventato immortale in seguito a un incidente causato da un acceleratore di particelle e dall’indisponibilità a sacrificare un paio di elastici. Va precisato che gli elastici sono simboli religiosi che rappresentano la natura circolare e flessibile del Dio Polyphill-Ah. Dopo il suo incidente, l’Arcipromonate della Chiesa di CE sentenziò che l’immortalità appena conseguita da Wowbagger era un segno inequivocabile per i fedeli. Wowbagger sentenziò che era un’inequivocabile rottura di cazzo e che con quella aveva chiuso per sempre con gli elastici. Dopo diversi millenni a diguazzare in un burbero tedio, Wowbagger aveva deciso di sfidare se stesso a visitare ogni mondo abitato nell’universo per assaggiare le birre indigene. Fu questo l’inizio di quello che gli storici chiamano il periodo ambra di Wowbagger, durante il quale mise su parecchio peso e scoprì il suo talento nell’insultare la gente. Un mattino, Wowbagger comprese, dopo il conato mattutino, che insultare la gente gli piaceva molto di più che bere birra, e così decise di cambiare in corso d’opera l’impresa da compiere. Il suo nuovo compito, stabilì, sarebbe stato quello di insultare ogni singolo essere senziente nell’universo, in ordine alfabetico. Era un individuo di così bell’aspetto e la sua astronave aveva uno stile così caratteristico che ben presto i media vennero a conoscenza della sua impresa e, da lì a poco, quando atterrava su un pianeta trovava l’intera popolazione in fila a implorare di essere insultata, cosa che un po’ gli tolse il piacere.
«Sei passato attraverso il reticolo di raggi mortali?» chiese Arthur pressante. «Con la tua astronave?»
Wowbagger si strinse nelle spalle. «Certo. La mia astronave è fatta di materia oscura e alimentata da energia oscura. Quei grebulon operano con materiali puramente barionici. Non sono in grado di concepire la mia astronave, meno che mai fermarla.»
«Sei in grado di spegnerli? I raggi, dico.»
Wowbagger mise in tasca il computer ultrasottile. «No. Vagano liberi nello spazio reale. Il destino della Terra è segnato, ed è un vero peccato, perché c’era ancora un sacco di gente da insultare sul tuo pianeta. Ma almeno ho beccato Beeblebrox, eh? Fuori dall’ordine alfabetico, d’accordo, ma si può fare un’eccezione per un imbecille di tal fatta. Giornata non del tutto disastrosa, dunque.» Wowbagger si strofinò le mani energicamente. «A ogni modo... è un piacere vedervi, tutti quanti, e non credo lo sarà la prossima volta.»
Trillian improvvisò il suo sorriso da giornalista. «Signor Wowbagger. Trillian Astra. Ci siamo conosciuti su New Betel. Fu tanto gentile da dedicarmi cinque minuti.»
«Ah, sì. New Betel. Avevo appena servito il re, mi pare? Lo definii pustola purulenta. Era un mio periodo di stanca. Definivo tutto purulento o infetto.»
«Avrà letto il mio pezzo su “WooHoo”, vero?»
«Non leggo mai gli articoli. Si finisce per crederci, sai. Guarda quel Beeblebrox. Crede veramente di essere una superstar strafruga, anziché lo zotico filosofunculistico che è in realtà.»
Zaphod stava appena cominciando a riprendersi da “culone” quando la parola “zotico” lo centrò come un cazzotto allo stomaco.
«Zotico? Oooooh. Che... Sei un mostro.»
Trillian insiste. «Mi chiedevo, non potreste darci un passaggio? Anche solo fino al pianeta più vicino.»
«Impossibile» tagliò corto Wowbagger. «Viaggio attraverso lo spazio oscuro. I mortali non dovrebbero vedere lo spazio oscuro, li altera.»
«Siamo disposti a correre il rischio. Non le daremo noie.»
Wowbagger alzò un sopracciglio. «Beeblebrox non darà noie? Ne dubito. Sarà in fuga da qualcuno o da qualcosa, no?»
Trillian tirò su Zaphod. «Il Presidente farà il bravo. Vero, Zaphod?»
Zaphod farfugliò qualcosa.
«Visto? Ha detto “sarei pazzo”.»
«Credevo avesse detto “ti ammazzo”.»
Arthur ballonzolò davanti a Zaphod, cercando di incontrare il suo sguardo rivolto al cielo. «Non hai detto così, amico. Vero? No, perché sarebbe folle, giusto? Minacciare di uccidere l’unica persona che potrebbe salvarci la vita.»
Zaphod si sollevò in posizione eretta, il respiro ansimante nella gola. «Mi ha chiamato zotico culone. Non posso permettergli di vivere.»
«Oh, stronzate» disse Ford.
L’umore di Wowbagger passò dalla noia cortese alla noia scortese. «Credi che non abbiano già tentato di ammazzarmi in passato? Nel mio campo ci si attira i nemici come i flibuzzi attraggono i pelucchi.»
Random singhiozzò con il viso fra i pugni stretti.
«Tengo per puro diletto la lista dei miei inseguitori. Attualmente mi danno la caccia più di cento cacciatori di taglie, sedici vascelli governativi, una manciata di Missili Intelligenti automatizzati e una mezza dozzina di aspiranti immortali che adorerebbero mangiarmi il cuore per rubare i miei poteri. Se solo fosse così facile. Desidero ardentemente la morte, ne sono affamato come questo idiota è affamato di pubblicità. Ho vissuto così a lungo da capire che l’amore perfetto non esiste. Quindi, troppo a lungo.»
«Potrei ucciderti» disse Zaphod. «Ho dell’influenza in questo universo. Conosco della gente che sa delle cose. Hai mai provato • fare un paio di round con la Vorace Bestia Bugblatta?»
Wowbagger sbuffò. «Quel vecchio ammasso di zanne? Spero tu sia capace di fare più di così.»
Arthur si mise le mani sul viso e guardò dall’oblò. Il raggio era quasi arrivato su di loro, ormai. Arthur credette di sentire come un gemito d’energia, benché sapesse che era impossibile.
“Ed è probabile che io non possa sentire neppure le urla dei morenti” pensò.
«Trillian» chiamò voltando il capo. «Ho idea che sarebbe una gran cosa se Zaphod smettesse di parlare. Non abbiamo degli storditori elettrici?»
Zaphod non era che all’inizio. «Posso fare meglio. Sei mai stato punto da una stregaragna?»
«Sì, altroché. Le mischio nei cocktail. Niente effetti letali.»
«E che mi dici di un’accetta al plasma? Quegli arnesi ti spaccano fino agli atomi.»
«Non i miei. Sono stato colpito da quattro di queste cosiddette accette indistruttibili da una banda di mercenari silastici dopo aver chiamato una delle loro madri faccia di mauga smarmollita. Si spaccarono.»
«Conosco un tizio che può procurarmi sei once di Consolium. Lo tieni nell’ascella per cinque minuti e il lavoro è fatto, bello.»
Wowbagger stava perdendo quel briciolo d’interesse per la conversazione. «Il Consolium è solo un mito, Beeblebrox. Risparmiami le tue storielle inutili.»
«Conosco degli dèi!» disse Zaphod disperato. «Altri esseri eterni. Scommetto che saprebbero darti il benservito.»
Il raggio mortale adesso incombeva enorme, facendo vibrare l’astronave, e pareva fendere lo spazio stesso al passaggio.
«Trillian!» gridò Arthur.
«La prego, Signor Wowbagger.»
«Conosci gli dèi?» chiese l’immortale verde, incuriosito controvoglia. «Sei davvero amico di dèi veri? Di Classe A?»
«Ho l’indirizzo di Thor proprio qui sul mio comunicatore. Una sola parola da parte mia e verrai preso a martellate.»
«Altri dèi hanno già provato ad ammazzarmi in passato.»
«Ci sono riusciti?»
«Oh, piantala, Beeblebrox.»
«Ma mai un dio di prima categoria, ci scommetto» disse Zaphod. «Mai uno di classe A.»
Wowbagger annuì pensoso. «No, mai uno di classe A. Non ho mai avuto molto tempo per quegli esseri supremi primari. Teste di cloaca, dal primo all’ultimo. Ma magari un colpo del leggendario maglio di Thor, Mjöllnir, potrebbe bastare per spegnermi l’interruttore. Potresti organizzare la cosa, Beeblebrox?»
«Sono l’unico che può farlo.»
«È vero» disse Ford. «Il vecchio Barba Rossa e Zaphod sono amici di vecchia data.»
Arthur non vedeva altro che verde.
“E così perdo nuovamente mia figlia. Quanto dolore si può arrivare a sopportare?”
Wowbagger premette un pulsante sul computer ultrasottile. «Spero per te che tu non mi stia spiralando l’inghiottiglio.»
Zaphod piegò un pollice della sua stola-braccio. «Niente scherzi. Mi hai chiamato culone zotico. È una questione d’onore, questa.»
Wowbagger disse appena due parole al suo computer. «Estendere scudo» fece.
Un chiarore bianco crepitò dall’oblò e il raggio mortale passò, inoffensivo, su di loro.